Scrive Mirella Appiotti, sull’inserto TuttoLibri de La Stampa di oggi, che il nuovo mondo del self-publishing riserva “[…] sorprese a cascata, dopo il fenomeno Amanda Hocking, 27enne da Minneapolis, alla quale il suo fantasy Switched, non proprio letteratura, postato su Kindle, ha fruttato dal 2010 oltre un milione di copie a 2,99 dollari. Né parliamo solo di America, da dove approda anche in versione italiana lulu.com/it, 1000 titoli nuovi al giorno […]” e come Mondadori stia lanciando la propria piattaforma online, per non abbandonare questa consistente porzione di mercato a concorrenti quali Amazon ed e-shop in generale.
Sembra che l’editoria sia, questa volta, ben più che toccata dal self-publishing. Vent’anni fa chiunque poteva ottenere la pubblicazione del proprio libro; pagava – sonoramente – la stampa delle centinaia di copie che desiderava, le riceveva e poi… e poi le teneva in casa, perché entrare nel circuito editoriale in qualità di Signori Nessuno è, nella pratica, impossibile. Sarebbe un po’ come se io, oggi, raccogliessi qualche decina di casse di mele dal mio giardino e cercassi di convincere l’Esselunga a venderle, in barba ai suoi fornitori; probabilmente, mangerei strudel per molti, molti mesi.
Oggi il metodo s’è modificato con l’evolversi del web, ed il successo in fieri è la dimostrazione che si tratta ben più di una possibilità editoriale differente. Si tratta di mentalità e costume.
“1000 titoli nuovi al giorno” sulla versione italiana di Lulu: è una cifra esorbitante. Chiunque, senza dover sborsare migliaia di euro, ma soltanto pubblicando un file digitale su un sito web e mettendolo a disposizione per l’acquisto, può far conoscere ad un pubblico vastissimo il proprio capolavoro nascosto, evitando la mediazione (e il giudizio) dell’editore.
Non si può non vedere in ciò il punto d’arrivo del nostro vivere Internet: qualsiasi pensiero, più o meno articolato, più o meno ben reso, può essere immediatamente reso disponibile e, in un certo senso, passatemi il termine, eternato. Non importa più l’avere una riflessione sul proprio pensiero, una “gestazione” intellettuale che lo approfondisca, anche lo rimetta in discussione, lo migliori; no, oggi il nostro elaborato cerebrale “grezzo” viene posto su Facebook, Twitter, su un qualsiasi blog e, oggi, anche in un e-book. L’importanza del contenuto che si pubblica scema, soppiantata dall’ansia di esserci, di esserci comunque, anche lasciando errori concettuali e refusi dietro di sé.
Il combattere per migliorarsi, per raggiungere, anche con difficoltà, un obiettivo, è temuto; non riusciamo più a vedere l’opportunità di crescita insita nell’antitesi della triade hegeliana della vita. Per questo ciò che, in questo caso, scriviamo è già di per sé perfetto e non merita il giudizio di un editore o i consigli di un editor; è già adatto alla pubblicazione con un click.
I Menestrelli di Jorvik non condividono questa deriva: su Arabica Fenice non è mai “buona la prima”, non è mai “io ci sono” o “dico perché dico”. Arabica Fenice è per tutti, perché vorrebbe comunicare “con” tutti e non “a” tutti, ma, forse snobisticamente, non c’è posto per tutti; prima, bisogna dimostrare di avere qualcosa da dire, e bene.
Ed Arabica Fenice è qui anche per essere un contraltare alla frenesia di dire senza pensare che il web ci ha inculcato.
Perché siamo stati viziati da piccoli, con l’illusa certezza di poter avere e di poter essere; ed oggi siamo viziati con la certezza di poter parlare – ma, nel baccano dello starnazzare di sette miliardi, con la sicurezza di non essere mai ascoltati.
Andrea Collivignarelli